In un comunicato stampa “Libera Basilicata” denuncia:
“Da anni seguiamo le vicende dei lavoratori stagionali che arrivano nella nostra terra per le campagne di raccolta.
Da subito abbiamo sentito il dovere morale di chiedere che anche Libera Basilicata partecipasse ai tavoli istituzionali sull’anticaporalato a tutela di chi non ha voce e non conta niente, perché la causa umana fondamentale della mafia è la miseria senza vie d’uscite.
Attorno alle strutture di accoglienza come il CAMS (Centro di accoglienza per i migranti stagionali) di Palazzo San Gervasio gravitano vite, fratelli, uomini poveri, disperati, con le loro speranze di rivalsa, e l’illusione di riscatto.
Strutture, come l’ex Tabacchificio di Palazzo San Gervasio, finanziato dai fondi AMIF – Emergency Funds (AP2019) della Commissione Europea – DG Migration and Home Affairs che, nei palazzi istituzionali, in occasione dei degli incontri sull’anticaporalato, vengono proposti da 30 anni come soluzioni provvisorie, d’emergenza si continuano ad investire ingenti capitali che, giovano gli enti gestori che, di anno in anno partecipano ai bandi per la presa in carico della struttura, ma non i lavoratori accolti.
Se di emergenza si deve discutere, questa è legata all’inadeguatezza della Regione e degli enti preposti a vigilare, a trovare una soluzione vera, lungimirante e strutturata.
Ai tavoli si parla dell’esperienza di Palazzo San Gervasio come di una modello di accoglienza da esportare in altre regioni, si discute di come investire 8 milioni di euro per la realizzazione dei nuovi Centri di Venosa/Boreano, Lavello/Gaudiano, Scanzano (MT), e la ristrutturazione dell’ex tabacchificio di Palazzo San Gervasio.
Fondi che lievitano nelle discussioni dei palazzi, non nella sostanza.
Libera Basilicata nell’ultimo tavolo anticaporalato ha espresso con forza le sue perplessità sulla percezione del dramma che si continua a vivere nei ghetti, nei campi di raccolta e nel centro di accoglienza.
Attorno a quei tavoli si discuteva di integrazione delle spese per aumentare posti, comprare tende, implementare servizi.
Si dibatteva molto di vile denaro, e poco del diritto alla dignità di chi bacia la terra da cui è costretto ad andare via.
Per tutte queste ragioni abbiamo chiesto, come negli anni passati, di poter entrare e visitare il CASM.
Avremmo voluto visitare il CASM nel periodo di piena capienza, tenuto conto che l’ente gestore, durante il tavolo anticaporalato aveva lamentato, una difficoltà a gestire un numero superiore di accolti rispetto ai posti indicati da bando.
Eravamo stati rassicurati circa l’accoglimento della nostra richiesta, rimasta inevasa negli anni scorsi, e che sembrava dovesse cadere nel vuoto anche quest’anno poi, a pochi giorni dalla chiusura della struttura, la Regione Basilicata ci ha accordato l’accesso.
Purtroppo, proprio la mattina della nostra visita, molti degli ospiti della struttura avevano lasciato la struttura, e ad usufruire del centro erano rimasti all’incirca in 20 ragazzi.
Nonostante tutto, in quel fatiscente capannone lo sentivi tutto il vuoto lasciato da 300 e passa anime di quel popolo invisibile e silenzioso che lavorava umile, paziente, sfruttato, ogni giorno, tutti i giorni, nei campi pur di consentire l’esistenza a se stessi, e ancor di più, a chi ha lasciato dietro di se.
Gli insufficienti fornellini da campeggio consunti di olio bruciato e condimenti incrostati, allacciati ad un impianto elettrico al limite della sicurezza, raccontavano di file di pentole e uomini dalle mani laboriose, dalle schiene provate dalla fatica, e dalle fronti grondanti di sudore che aspettavano pazienti il loro turno per consumare un pasto frugale.
Quel freddo capannone dormitorio dai lunghi corridoi silenziosi, e le stanze vissute, disordinate, raccontavano di una stanchezza mai lenita nel poco tempo tra il tramonto e l’alba di un nuovo giorno di lavoro.
Lo scarico dagli effluvi maleodoranti all’ingresso della camerata, quegli indumenti usurati e “insudiciati di dignità” appesi alle pareti o accatastati sul pavimento e, quelle scarpette da scoglio consumate dall’arsura della terra cocente dei campi, narravano di una umanità vilipesa dentro un modello di accoglienza fallimentare.
Per noi che da anni visitiamo i ghetti di Boreano, e Montemilone cercando di fare la nostra piccola parte, poco o nulla sembrava cambiare per quei ragazzi che anche li dentro restavano gli ultimi della terra ospiti di una “casa straniera”.
Viene difficile riconoscere a chiunque si cimenti nella gestione di quel capannone di anime, perse una traccia degna di esempio, nonostante gli impiegati dell’ARLAB, gli psicologi, gli insegnanti d’italiano e gli operatori in servizio di 20 ragazzi spossati dalla fatica.
L’anno prossimo tutta questa triste storia si ripeterà come negli anni passati.
Ci sarà un nuovo bando, un affidamento di gara all’ennesimo ente gestore che vorrà cimentarsi nell’impresa, si partirà con mesi di ritardo rispetto all’inizio delle campagne di raccolta, e tanti, troppi braccianti foraggeranno le fauci dei moderni mercanti di uomini.
Quel che resta di questa visita è la rabbia per l’indifferenza di tutti, nel silenzio di molti, tra l’ipocrisia stucchevole di chi si atteggia a paladino dei loro diritti.
Quel che resta di questa visita è il contegno di questi fratelli che conservano un’umanità che non deve, non può essere straniera.
Quel che resta di questa visita è una domanda su tutte: ‘Quanto vale la vita di questi ragazzi, la loro dignità, i loro sogni?’.
Quel che resta di questa visita è un monito per tutti: Bisognerebbe avere lo stesso coraggio che questi fratelli hanno avuto a restare da soli in mezzo al mare, per gridare, urlare lo sdegno per una terra che ammette che un fratello sia meno libero e meno uguale“.
Ecco le foto.