In un vertice, durato più di 3 ore, il 4 Luglio, il Governo ha tentato di avviare le intese con le tre regioni capofila – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – sul tema dell’autonomia differenziata.
Gino Giorgetti, Consigliere Regionale del Movimento 5 Stelle, chiarisce i contorni della vicenda:
“Ho presentato una mozione che impegni i Presidenti della Giunta e del Consiglio della Regione Basilicata ad invitare il Governo Nazionale ad abbandonare qualsiasi iniziativa che porti alla costituzione di nuove ‘gabbie salariali’, innanzitutto perché una simile norma discriminatoria (e razzista) provocherebbe solo ulteriori e più profonde spaccature nel Paese.
I governatori di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna vogliono un modello di autonomia regionale differenziata le cui vere implicazioni non sono chiare agli italiani, che non sanno di che cosa si tratti effettivamente (anche perché se ne parla poco e in modo molto vago).
Non si tratta di una piccola questione amministrativa, che riguarda solo i cittadini di quelle regioni, ma è una grande questione politica che riguarda tutti gli italiani, perché è indiscutibile il rischio sia di spezzettamento della scuola pubblica che di creare nell’ambito sanitario, per esempio, cittadini di serie A e di serie B, a seconda della regione in cui vivono.
Già nel 1954 l’Italia venne divisa in 14 zone nelle quali si applicavano salari diversi a seconda del costo della vita ma, alla fine degli anni ’60, queste “gabbie salariali” portarono ad un susseguirsi di scioperi e lotte sindacali perché, di fatto, era una suddivisione discriminatoria oltre che un fattore incisivo nel determinare il gap fra le regioni del Nord e quelle del Sud.
Tanto è che a Marzo del 1969 i sindacati e Confindustria si accordarono per l’abolizione delle zone salariali e per l’unificazione progressiva dei salari.
Le ‘gabbie salariali’ furono ufficialmente abolite il 1° Luglio 1972.
Dopo 50 anni, però il tema delle ‘gabbie salariali’ torna ad accendere il dibattito politico nonostante, nei primi anni ’90, i governi di centro-sinistra abbiano già attuato, soprattutto al Sud qualcosa di simile: i ‘contratti d’area’.
Ad esempio, fino al 2004, gli operai della Fiat di Melfi (ora FCA), a parità di orario, guadagnavano, per contratto, meno dei loro colleghi degli stabilimenti Fiat del Centro Nord.
Le ultime tabelle Istat degli indicatori del benessere equo e sostenibile dei territori, già tratteggiano un’Italia con forti divari, fra Nord e Sud e fra singole regioni con la Lombardia in testa e la Calabria in coda, con Milano in cima alla classifica delle province con 29.627 euro di reddito medio e Vibo Valentia all’ultimo posto con 12.118 euro e la Basilicata poco sopra con 13.419 euro di reddito pro-capite.
Già oggi per le retribuzioni medie annue dei lavoratori dipendenti la nostra Italia viaggia a più velocità:
- Nord a 24.356 euro;
- Centro a 21.189;
- Sud a 16.113 euro.
Quindi innanzitutto si deve osservare che nel Mezzogiorno i salari sono già inferiori rispetto a quelli del Nord.
In uno stato la cui Legge Costituzionale all’art. 3 recita ‘Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali’ è, quindi, come recita lo stesso articolo, ‘compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto eguaglianza dei cittadini’.
Eppure tra le tesi che spingono questi governatori del nord per le ‘gabbie salariali’, vige il fatto che al nord il costo della vita sarebbe più alto rispetto al sud, mentre i salari monetari sarebbero, nel migliore dei casi, di poco più alti.
Sostenendo, quindi, che i salari reali al nord sarebbero più bassi rispetto al sud.
Ma affermare che il costo della vita al nord sia più alto rispetto al sud è a dir poco opinabile.
Questa tesi, approssima il costo della vita ad un indice che dipende dal prezzo delle case e degli affitti.
Ma sebbene il costo di una casa o di un affitto in una città come Milano o Roma, in media, sia più alto rispetto allo stesso costo in una città del Mezzogiorno, tale indice non dice nulla rispetto alla variazione dei prezzi delle case all’interno delle stesse città, sia al nord che al sud, perché i differenziali interni ad ogni area sono enormi.
Per fare solo qualche esempio, i valori massimi in alcuni quartieri di centro e periferia – in euro al metro quadro – a Milano oscillano dalle €9.800 (Brera) alle €2.200 (Lambrate) così come a Napoli oscillano dalle €7.700 (Posillipo) alle €2.150 (Secondigliano).
Di fronte a queste oggettive enormi differenze al metro quadro, nella stessa città, in base al quartiere, gli ‘scienziati’ governatori delle 4 regioni del nord, perché hanno ipotizzato di differenziare i salari nominali non solo in base alle due o tre macro regioni italiane ma anche in base al quartiere di residenza?
La verità è che piuttosto che abbassare i salari al sud, sarebbe assolutamente prioritario invece investire sulle infrastrutture pubbliche e migliorare i servizi anche perché i salari, nel Mezzogiorno, sono già in linea con la dinamica della produttività (si legga analisi del 2016 dei dr. Aiello, Daniele e Petraglia).
Il relativo sottosviluppo del sud rispetto al nord non è solo una questione di salari e redditi.
Al di là del prezzo delle case già di per sé controversa (come rappresentato prima), al Sud il tenore di vita è drammaticamente compromesso dalla qualità e quantità dei servizi e delle infrastrutture pubbliche (ospedali, ferrovie, autostrade ecc.) e dal continuo sotto-investimento nel sud rispetto al nord, sia pubblico (come testimonia Il Rapporto Svimez del 2017), sia privato come è evidente dai dati dell’Istat.
Di conseguenza, se anche fosse vero che il costo della vita al nord fosse più alto che al sud, tale differenza sarebbe oltremodo compensata da servizi e infrastrutture pubbliche, come rilevato in uno studio della Banca d’Italia (di Giovanni D’Alessio, QEF, n. 385/2017).
Infine, viene quasi spontaneo ricordare una ulteriore questione, che in questo contesto sembra più che mai rilevante: ma se è vero che la produttività al nord è più alta che al sud, perché le imprese in sede di contrattazione secondaria, strumento disponibile e poco diffuso, non alzano i salari al nord ed in particolare in Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna?”.