La Coldiretti Basilicata, inclusa la delegazione di Melfi e del Vulture-Melfese, si è riunita ieri presso l’Azienda Sperimentale Pantanello a Metaponto di Bernalda per discutere del difficile tema delle agromafie e del caporalato.
Due piaghe che riguardano anche una regione come la nostra che, come è noto, ha una grande vocazione agricola.
Ricco il parterre di ospiti e affollata la sala che ha voluto ascoltare, comprendere e anche farsi comprendere rispetto ad un tema che presenta criticità ma anche possibilità di risoluzione.
Lo hanno ribadito più volte i procuratori della Repubblica Gian Carlo Caselli e Cataldo Motta, attualmente a capo del Comitato Scientifico Osservatorio Agromafie. Un Comitato al quale la Coldiretti tiene molto, come ha ribadito il presidente regionale Piergiorgio Quarto:
“In questa giornata, che io definirei sindacale, vogliamo sottolineare quanto sia importante la collaborazione con le istituzioni per la difesa del Made in Italy. Chi opera nell’alveo delle agromafie macchia l’intero territorio: questo non dobbiamo consentirlo. Dobbiamo recuperare il valore che ci viene tolto e non permettere più che si compiano azioni criminose. Questo è possibile solo se tutti rispettiamo le regole”.
Presente anche il Capo Ispettorato Territoriale del lavoro di Basilicata, Stefano Pennesi, che svolge un’azione di controllo e di rispetto delle regole per consentire a tutti di lavorare entro la legalità:
“Certo lo Stato non deve essere oppressivo, perché talvolta ci si scontra con situazioni ai limiti della legalità. L’Ispettorato vuole essere vicino all’impresa, premiare chi lavora bene, consentire ai giovani di entrare nel mondo dell’imprenditorialità agricola che in Basilicata sta riscoprendo una nuova linfa”.
Pennesi ha snocciolato poi qualche dato:
“Nella nostra regione abbiamo il 40% delle irregolarità e il settore agricolo è quello con la percentuale più bassa. Questo vuol dire che la legalità vuole e deve essere parte integrante del sistema lavoro, e l’Ispettorato è un punto di riferimento e di raccordo per chi vuole operare in completa sicurezza”.
Illuminante è stata la relazione del già Procuratore della DDA di Lecce, Cataldo Motta, che non ha risparmiato critiche al vuoto normativo che ancora oggi vige rispetto allo sfruttamento lavorativo:
“C’è una sorta di indifferenza rispetto a questo tema. Le leggi del 2011 e del 2016 non hanno chiarito o hanno confuso le varie prestazioni lavorative che operano non proprio nel rispetto delle regole. Sono norme incomprensibili e lontane dal contenuto che si vuole reprimere. Abbiamo proposto di definire meglio la figura del caporale, cioè di quell’intermediario tra datore di lavoro e lavoratore. Secondo noi magistrati bisognava punire anche quel caporale che costringe il datore a far lavorare in maniera fittizia dei dipendenti da lui individuati, purtroppo non siamo stati ascoltati. Quindi bisogna rendere la normativa migliore perché così come è stata prodotta non è sufficiente”.
Sul vuoto normativo è d’accordo anche Romano Magrini, Capo Area Gestione del Personale, Lavoro e Relazioni Sindacali:
“Il caporalato nasce anche a causa della lontananza tra datore di lavoro e lavoratore il quale non ha la possibilità di raggiungere il luogo di lavoro, ecco perché si rivolge al caporale. Bisogna diminuire la distanza tra queste due realtà. Come bisogna eliminare quelle frange di imprenditori che trattano con violenza e minacce i dipendenti perché fanno del male al nostro Made in Italy.
Abbiamo bisogno di lavoratori abilitati e riconosciuti, con un proprio tesserino e una propria formazione. Perché se un imprenditore ha necessità di reclutare manodopera per tre giorni non può perdere tempo a formarlo, a sottoporlo a visita medica, eccetera. È un atteggiamento controproducente. In casi come questo egli è costretto a rivolgersi al mercato nero della manodopera, e quindi al caporale. Se velocizziamo la burocrazia, se mettiamo a disposizione una forza lavoro competente e riconosciuta, l’imprenditore può lavorare nel rispetto della legge e secondo tempi ragionevoli”.
Magrini ha poi messo in guardia sul falso Made in Italy:
“Bisogna stare attenti ai prodotti presenti sugli scaffali del supermercato. Le etichette non sono ancora chiare, rischiamo di comprare prodotti che si spacciano per italiani o che provengono da Paesi in cui lo sfruttamento lavorativo è assolutamente normale. Noi dobbiamo combattere e non favorire questo sistema marcio”.
Le conclusioni della giornata sono state affidate al Procuratore Gian Carlo Caselli, uno dei più grandi magistrati italiani, sempre in prima linea nella lotta contro la mafia. Per Caselli il rispetto delle regole non è un’opinione ma un fatto. Più legalità vuol dire migliore qualità della vita:
“I tre mostri della illegalità economica sono corruzione, evasione fiscale e mafia. Insieme generano un business di 320 miliardi di euro all’anno: soldi che ci vengono portati via con conseguente impoverimento di tutta la comunità. Nel settore agroalimentare il rispetto delle regole vuol dire produrre cibo di qualità e salvaguardare la salute dei cittadini.
È noto che il Made in Italy tira e attrae, e questo suscita attenzione anche in quei soggetti che di legalità non vogliono sentirne parlare. Così nascono le agromafie. Dalla terra allo scaffale alla tavola esse controllano tutta la filiera. Comprano terreni con prestanome, si inseriscono nel sistema dei trasporti, arrivano a imporre l’utilizzo di certe cassette o certi sacchetti di plastica, decidono le scelte dei consumatori”.
Caselli si fa poi duro quando parla di marchio “mafia”:
“È lo sfruttamento di un marchio schifoso, sinonimo di violenza e schiavitù. Si tratta di un brand criminale, infame, di un brand che in Austria arriva a commercializzare un salsicciotto chiamato Falcone con lo slogan “Finirà arrostito”. In Spagna addirittura una catena di ristorazione ha diffuso lo stile della cucina mafiosa, con prodotti siciliani e arredi da gangster. Il danno qui è doppio: innanzitutto si continua a favorire l’idea distorta e ingiusta di Italia uguale mafia. E poi si passa dalla condanna più assoluta della mafia alla sua celebrazione, niente di più vergognoso”.
Per questo Coldiretti Basilicata intende rinsaldare i rapporti con il Comitato Scientifico sulle Agromafie e l’Ispettorato del Lavoro, per ribadire ancora una volta che l’associazione è in prima linea nella lotta contro la mafia e lo sfruttamento lavorativo.
Per il Made in Italy e per gli imprenditori onesti, sempre e comunque.