Melfi celebra quest’anno il millenario della fortificazione della città.
Un appuntamento unico, intriso di storia, cultura ma soprattutto di ricerca accademica.
Già perché sono tante le lacune ancora presenti e che non consentono di avere una visione obiettiva di quello che è il nostro passato.
Si tende, a buon ragione, a considerare Melfi la città di Federico II. Ma Melfi ha una storia che si perde nella notte dei tempi e che deve stuzzicare la curiosità tanto degli studiosi quanto dei cittadini.
Non è un caso che in seno a questo Millenario è nato un Comitato Scientifico presieduto dal professore Fonseca e che nel corso dei mesi richiamerà medievisti da tutta Europa per porre finalmente sotto una nuova luce la complessa realtà di Melfi nei secoli del Medioevo.
Tra gli studiosi che si stanno interessando alla causa, figura il dottor Alessandro Panico, figura intellettuale e poliedrica che sta portando avanti uno studio capillare su Melfi e sulla fondazione della cinta muraria.
Vi proponiamo di seguito la sua preziosa relazione che approfondisce la nascita della fortificazione cittadina in epoca bizantina, proponendo una serie di ipotesi che ridisegnano la topografia e quindi la storia di Melfi.
“La ricerca sulle origini della fortificazione di Melfi sta ricevendo nuovo impulso in questi mesi, grazie alle celebrazioni per il millenario dell’incastellamento operato dal catapano imperiale Basilio Boioannes. Uno dei problemi tuttora irrisolti è l’individuazione di una data fondativa della città munita, la cui antropizzazione in età medievale precede certamente la battaglia di Canne del 01 Ottobre 1019, data da cui gli storici (Houben, Fonseca, Panarelli e altri) collocano la costruzione del vallo difensivo bizantino: un’unica grande linea fortificata che correva sui rilievi appenninici da Melfi all’Adriatico, passando per Troia, Bovino, Fiorentino, Civitate sul Fortore e un numero significativo di castra minori. Ne è indizio la cronaca di Amato di Montecassino (Ystoire de li Normant), che colloca una battaglia tra i Longobardi di Ismael e i Romani, antecedente a quella del 1019, presso il villaggio Vaccareccia “di Melfi”.
È peraltro noto che il cono vulcanico su cui sorge Melfi era frequentato fin dal VII secolo a.C.: ne è prova la necropoli daunia di Chiucchiari, che probabilmente si spingeva fino all’attuale via Ronca Battista, come riporta Araneo citando il rinvenimento di sepolcri antichi nel 1863, durante i lavori di costruzione della rete fognaria (Notizie Storiche della Città di Melfi). Se, dunque, tutta la parte orientale della collina era luogo di sepoltura, la parte occidentale, più elevata e difendibile, doveva essere fin dall’antichità un’acropoli abitata. Tale era, con ogni probabilità, il perimetro del castrum bizantino intorno al 1018, conservato dai Normanni per tutto il periodo della Contea Altavilla fino alla nascita del Ducato con il sinodo papale del 1059. Soltanto a partire da quest’anno può ragionevolmente datarsi la nuova fioritura urbanistica e architettonica della città, operata prima da Roberto il Guiscardo e poi da Ruggero Borsa, che sfocia nel trentennio aureo della costruzione delle grandi cattedrali, basiliche e abbazie romaniche meridionali, di cui il complesso episcopale di Melfi è parte integrante al pari di Salerno, San Nicola di Bari, Trani, Lecce, Bitonto, Troia, Ruvo, Acerenza, Sant’Ippolito e la SS. Trinità di Venosa, solo per citare alcuni degli esempi più significativi. Così ampliata, in un perimetro molto simile a quello attuale, la trovarono Melfi i re siciliani Altavilla “di ritorno”, a partire da Ruggero II che fece realizzare il campanile di Noslo di Remerio, concluso nel 1153 durante la coreggenza di Guglielmo il Malo.
Questa ipotesi di evoluzione planimetrica in due grandi fasi trova riscontro, se più indizi fanno una prova, in elementi urbanistici, architettonici e geomorfologici resi leggibili dalle nuove potenzialità della computer grafica. Basta osservare un rilievo plano-altimetrico tridimensionale (fig. 1) per notare, ad esempio, che il reticolo viario della parte occidentale rispetto all’asse della “Rua Grande” è molto più capillare e articolato rispetto al resto della città storica e, di conseguenza, gli isolati sono qui molto più frammentati. Se poi ci si cala nelle cantine dei fabbricati prospicienti la Rua Grande, lungo tutto l’asse che dalla piazza del Tribunale scende verso via Bagno, passando per via Vittorio Emanuele, piazza Umberto e via Nitti, si scopre che esse si sviluppano in più livelli, dei quali i più superficiali non sono scavati ma costruiti in “elevazione”: ciò prova che il livello antico dell’asse stradale era molto inferiore a quello attuale e, un tempo, doveva essere un unico grande vallone che tagliava in due la collina come una ruga, separando l’acropoli munita dal resto dell’insediamento. Lo stesso complesso della Cattedrale è stato edificato in area extra-moenia, come i due monasteri francescani tuttora esistenti in città (compreso quello delle Clarisse di cui sarebbe utile indagare le origini primigenie), quello dedicato a San Benedetto su iniziativa di Guglielmo da Vercelli e quello degli Agostiniani.
L’elemento più sorprendente che emerge da questa lettura dell’impronta urbanistica del castrum bizantino è però la sua distribuzione semi-radiale: un unicum assoluto tra le città fortificate. Se, infatti, il modello radiale integrale è comune a molti casi di incastellamento medievale su rilievo e caratterizza anche altri insediamenti acquisiti e modificati dai Normanni (su tutti Aversa: cfr. Stefano Borsi, La Città Normanna, Libria, 2014), la fortificazione di Melfi si caratterizza invece per un impianto semi radiale, con quattro direttrici longitudinali che qui sostituiscono lo schema ortogonale della centuriazione romana per cardi e decumani di pianura. Essi convergono in un unico foro posto a valle, che diventa necessariamente l’accesso principale alla città: si tratta di via San Lorenzo, vico Sant’Andrea, vico Neve/Gradelle e via Santa Lucia. Questi quattro raggi, collegati da piccole traverse che seguono le curve di livello, le cosiddette “trasonne” del gergo popolare, si chiudono perfettamente in un punto, oggi occupato da un fabbricato civile, dove doveva trovarsi in origine la platea del mercato, da cui l’adiacente chiesa templare di “San Nicola della Piazza” trae il nome. I due raggi estremi, inoltre, si dirigono verso le porte contrapposte della prima cinta muraria: alla Calcinaia il radio sud-occidentale, alla Troiana quello nord-orientale. Tre, dunque, erano verosimilmente le porte della città in età bizantina e anche in età proto-normanna, almeno fino alla data convenzionale di cesura del 1059, se si include quella compresa principale ubicata alla confluenza del sistema radiale, che potremmo chiamare di San Nicola.
L’abitato ne risulta suddiviso, con razionalità ed eleganza, in quattro quartieri triangolari di uguale dimensione, disposti a ventaglio, per ognuno dei quali è possibile individuare una chiesa di riferimento, ubicata lungo il corso dell’asse radiale: San Lorenzo, Sant’Andrea, San Teodoro e Santa Lucia. Si nota anche come il sistema difensivo militare impostato dall’esercito di Boioannes prevedesse un’ampia fascia di rispetto, non edificata, posta tra l’abitato e la cinta muraria, soprattutto nella corona nord-occidentale compresa tra la porta Calcinaia e quella Troiana, in cui oggi è incastonato il castello. Probabilmente tale area era riservata alle manovre difensive e a proteggere le abitazioni da lanci ostili provenienti dall’esterno.
La città, infatti, era difesa soprattutto dai ripidi pendii naturali del cono vulcanico, più che dalle mura edificate, tanto che lo stesso Amato da Montecassino definì Melfi “Molto forte per le sue mura, non perché siano alte, ma perché sono poste in alto“. Se questo criterio difensivo valeva lungo tutto il perimetro – e non vi è ragione per dubitarne – allora la cinta bizantina, nel tratto interno all’attuale città, doveva correre molto più in alto rispetto all’asse di via Nitti, dove in epoca successiva sarà effettuato l’ampliamento e realizzata la porta di Santa Maria o del Bagno. Per rendersene conto, basta osservare quanto siano in alto le abitazioni poste a monte di via Nitti, tra vico Pendino e vico San Nicola.
Infine, una notazione sulle quattro chiese dei quartieri bizantini: se San Nicola, Santa Lucia, San Teodoro e Sant’Andrea sono certamente riconducibili al culto greco-orientale (noto l’episodio di spoglio delle reliquie di Santa Lucia operato da Maniace a Siracusa in presenza di Guglielmo Altavilla), la chiesa di San Lorenzo pare un’anomala eccezione. In effetti, essa era suffraganea dell’abbazia benedettina di Sant’Ippolito di Monticchio ed è dedicata a un santo di culto cattolico romano, benedettino e ambrosiano. Inoltre è l’unica chiesa a pianta ottagonale e, soprattutto, non è rivolta a oriente, diversamente dalle altre. Tutti indizi che lasciano pensare a una chiesa fondata in epoca normanna, forse in luogo di altra chiesa bizantina che poteva trovarsi più a valle, se vale il criterio di una chiesa di quartiere lungo ogni direttrice radiale del castrum greco-romano.
Tutti spunti per ulteriori approfondimenti, sui quali potremo tornare”.